Di recente sono stata a Milano dove ho avuto l’opportunità di passare mezza giornata con i fondatori di Velasca. Enrico Casati e Jacopo Sebastio si sono raccontati e mi hanno parlato della loro storia e dei progetti futuri per la loro impresa.
Gli inizi
Com’è nata l’idea di Velasca e la vostra collaborazione?
Enrico: Ci conosciamo da tanto tempo, perché Jacopo è il migliore amico di mio fratello. Nonostante i 5 anni di differenza, abbiamo frequentato lo stesso liceo, poi la stessa università, la Bocconi, e siamo sempre stati l’uno nella vita dell’altro in modo un po’ periferico. Nel 2012, quando io vivevo e lavoravo a Singapore, Jacopo e mio fratello sono venuti a trovarmi, e mi hanno portato un mocassino da una bottega di Milano che avevo espressamente richiesto, perché non trovavo nulla di simile lì. A Singapore il mercato dei prodotti artigianali - e in particolare delle calzature - è estremamente polarizzato, con il lusso high-end da un lato, tipo Tod's o Ferragamo, e il made-in-China dall’altro, chiaramente a buon mercato ma di pessima qualità. Non esiste una via di mezzo.
Jacopo: A quel punto, durante un viaggio in taxi, ci siamo chiesti “Ma perché non proviamo a vendere anche noi scarpe in tutto il mondo? Come Enrico ci saranno tante altre persone che hanno bisogno di una calzatura fatta bene, classica e che duri nel tempo a un prezzo più accessibile”. Sapevamo che l’ecommerce cresceva, che il digital stava esplodendo…ci è sembrato il momento giusto.
Enrico: Esatto, la scintilla è stata questa. E l’angolazione è stata di vendere attraverso il canale dell’ecommerce dei prodotti che fossero non solo artigianali ma anche di bel design italiano. Il made-in-Italy destinato al mercato asiatico esisteva, ma con forme che non rispecchiavano la nostra idea di cosa fosse rappresentativo del design italiano.
La nostra idea era di offrire un prodotto artigianale di alta qualità ad un prezzo competitivo.
Poi in questi anni il posizionamento di Velasca si è evoluto, ma il progetto è rimasto fondamentalmente lo stesso, e si basa sull’idea di “smart buy”, che poi è anche un trend di mercato: mentre in passato contava molto il marchio di lusso per farsi vedere, per sentirsi appartenenti a una determinata classe sociale, oggi ci si è spostati più verso la predilezione per un prodotto che sia magari un po' più di nicchia, ma dalla qualità alta, che vada a riscoprire le tradizioni e l’artigianato, ad un prezzo che non ti faccia fuori metà dello stipendio mensile. Questa è la definizione di “smart buy”: un posizionamento premium con un prodotto che dovrebbe essere il doppio nel prezzo.
Rimane importantissimo per noi essere comunque percepiti come “belli” e “di bel design” e non vogliamo che il prezzo venga percepito come cheap. Di solito la percezione è: “più costa il prodotto, più è di qualità”. Noi cerchiamo di staccarci da questa cosa. Il prezzo è accessibile, ma la qualità è pari a quella di una scarpa da €400, che è un po' una sfida, perché ovviamente non essendo conosciuti dobbiamo superare un po' di resistenza.
La nostra idea è di offrire un prodotto artigianale di alta qualità ad un prezzo competitivo.
Il lancio
Enrico: Siamo partiti qualche mese dopo con due lire, grazie ai risparmi del nostro lavoro di dipendenti. Io a tempo pieno, Jacopo inizialmente come consulente. Abbiamo lanciato un sito web con la prima collezione di soli mocassini, con un modello solo in nove colori, a maggio 2013. Ci siamo messi da subito a fare mini-test di marketing online, facevamo anche AdWords, che poi abbiamo abbandonato come canale. Un po' di Facebook advertising, un po' di amici, un po’ di passaparola tramite i social. Essendo entrambi di Milano, la nostra città è stata la nostra prima piazza. E il fatto di appartenere a due generazioni diverse ci ha facilitato, perché siamo riusciti ad acchiappare 3 fasce di età diverse e da lì abbiamo creato un pochino di awareness sulla città di Milano.
Dal punto di vista offline, la famosa Apecar, brandizzata Velasca. Credo che ci siano ancora delle foto sul web, di cui mi vergogno molto.
Jacopo: Dato che non avevamo la licenza per vendere nell’area C di Milano, ci spostavamo con l’Apecar fra le varie grosse società di consulenza come Deloitte ecc. situate appena fuori da quell’area, parcheggiavamo, stendevamo il tappetino verde con lo sgabellino, e facevamo provare le scarpe ai dipendenti che uscivano in pausa pranzo. E la gente comprava, tant’è che abbiamo venduto tutto il primo stock di scarpe nel giro di due-tre settimane, metà online e metà offline con l’Apecar.
Riguardo all’operazione su strada con l'Apecar… ci sono clienti che ancora oggi la ricordano!
La crescita
Jacopo: A quel punto abbiamo deciso di non limitarci alla vendita online ma di vendere anche offline, con l’idea di un corner. Spendevamo €400 al mese e vendevamo poco; in realtà simultaneamente avevamo iniziato a spendere i primi euro in digital marketing, Facebook, AdWords, il tutto in maniera abbastanza casuale, senza una grossa struttura. Però vedevamo che iniziavano ad arrivare persone verso il nostro corner. Vendevamo probabilmente, quando andava bene, 9 paia di scarpe alla settimana, forse neanche...
Però le prime pubblicità sono servite più che altro a farci conoscere dagli investitori, che ci hanno chiamato. Abbiamo usufruito di due business angels, con i quali abbiamo cercato di colmare quella che era la nostra incompetenza, perché né io né Enrico ne sapevamo nulla di logistica, di internet e di scarpe. Di scarpe abbiamo detto “proviamo a farcene una cultura” e dato che di logistica non sapevamo niente, abbiamo finito per appoggiarci a Fiege, che ora si occupa di tutta la nostra logistica.
Grazie al mentoring dei nostri primi investitori siamo riusciti a coinvolgerne altri, siamo stati inglobati da Boox Srl, un acceleratore per startup digitali con base a Milano, e da lì abbiamo iniziato a strutturare il primo ticket da 125mila euro. Lì abbiamo iniziato a investire, perché a quel punto la struttura era già tutta pronta.
Il 30-40% di fatturato veniva investito in magazzino e la restante parte in comunicazione. La comunicazione anche intesa come primo temporary store prima di Natale nel novembre 2014, dove appunto a valle di una comunicazione online, avevamo raccolto un po' di contatti. Grazie all’inoltro di una newsletter e alla comunicazione sui social siamo riusciti a traghettare tutte le persone che avevamo contattato online nel negozio fisico. Da lì abbiamo capito veramente che il potenziale del negozio fisico era enorme. Abbiamo creato un bel concept, con un salottino per il caffè, il gin tonic la sera... un clima giovane, confortevole, che piaceva molto.
A quel punto ci siamo sentiti di poter investire un pochino per un temporary store, che si è poi ripagato nel giro di due giorni. Le vendite nel temporary store sono andate talmente bene che i risultati ci hanno garantito un altro giro di investimenti da parte dei nostri investitori, e a quel punto è iniziata la vera e propria crescita. È lì che abbiamo percepito veramente il potenziale di quello che nei due anni precedenti avevamo costruito. E da lì in poi abbiamo iniziato a investire molto in digital marketing, investire sia in termini di budget che in termini di struttura. Abbiamo assunto una persona che segue esclusivamente tutte le campagne di marketing e da lì stiamo crescendo molto.
Enrico: Di fatto siamo usciti dalla fase start-up e siamo entrati nella fase scale-up, con tutti i problemi che ne conseguono. Perché il “tema fornitore” è sempre attuale. Attualmente ne abbiamo quattro, tutti a Montegranaro nelle Marche, ma nel giro di un anno e mezzo, se le cose vanno come devono andare, è probabile che arriviamo a saturare anche loro, e quindi dovremo trovarne degli altri. È un continuo, anche perché andare da quelli veramente grossi - gli stessi di Tod’s o magari un filo sotto, per intenderci – non è fattibile perché non ci vogliono ancora, dato che gli ordini sono ancora troppo piccoli per loro. Ma sono convinto che nel giro di un anno e mezzo probabilmente verranno anche loro a bussare alla nostra porta come hanno fatto questi quattro, che 5 anni fa non ci hanno voluto.
I fornitori
Raccontami di come avete trovato chi vi fa le scarpe. Quanto ci avete messo a trovare i fornitori? Quali problematiche legate alla manifattura vi trovate ad affrontare oggi?
Jacopo: Inizialmente io andai a chiedere a Belfiore Calzature e a Cardinale Scarpe, dove avevamo comprato il famoso mocassino portato a Singapore. Si tratta di queste due botteghe storiche milanesi che in 20 metri quadrati fanno un fatturato di 4 milioni di euro più o meno. Sono uno di fianco all’altro, uguali. Chiedemmo se fossero disponibili a prestarci il loro magazzino per vendere online all'estero, cosa che loro non facevano. Ci sembrava importante avere uno stock di partenza, e ci sembrava una scelta intelligente. Ci dissero di no.
Col senno di poi, siamo contenti che sia andata così, che loro ci abbiano detto di no, perché questo ci ha permesso poi di focalizzarci su qualcosa di veramente nostro.
Enrico: Per quel che mi riguarda il rapporto con i fornitori, che nello specifico sono artigiani, è tutt'ora la parte forse più ostica, più difficile. Perché mentre altre aree come il marketing dipendono molto da quelle che sono le competenze interne, il rapporto con gli artigiani è un’interazione con un'altra persona, dall'altra parte del tavolo, molto diversa da te, perché ha un proprio background, una storia completamente diversa.
Adesso che andiamo con delle richieste di volumi interessanti, è già più facile avere le porte aperte e ottenere anche delle condizioni favorevoli. All'inizio, quando mi presentavo da sbarbato parlando di ecommerce e dicendo cose come “voglio costruire un brand online” mi rispondevano un po’ scettici “Cosa vuoi fare tu? Lu marchio?”
Non mi prendevano molto seriamente. Sinceramente è stato difficile, e lo è tutt’ora per un certo verso, perché non essendo fornitori industriali sono meno affidabili come tempi di consegne e come quantità. La cosa bella è che hanno una qualità molto alta, una manualità molto bella, sono veramente artigiani-artisti.
I nostri fornitori hanno una qualità molto alta, una manualità molto bella, sono veramente artigiani-artisti.
Il fatto che noi fossimo inesperti nel mondo della calzatura e inesperti in generale nel mondo dell'imprenditoria non ha aiutato. A livello macroeconomico è successa una cosa interessante: il fatto che ci sia stata la crisi ci ha facilitato nell’essere ascoltati. Perché quando noi ci siamo presentati all’inizio, queste aziende lavoravano bene, e praticamente ci hanno cacciato.
Poi è arrivata la crisi, e si sono visti il fatturato scendere anche del 20-30%, e lì alcuni ci hanno ascoltato, in particolare uno. Ha iniziato a farci dei prototipi e a crederci. E siamo partiti da lui. All’inizio quindi avevamo due fornitori: uno per la parte estiva, con un modello solo, quello del mocassino, e uno per la parte 4 stagioni/invernale. Piano piano abbiamo fatto i primi ordini, 20 paia di scarpe, poi 40, poi 60... Adesso magari ne ordiniamo 2.000 alla volta, quindi sono anche contenti di questa storia. Però non nego che all’inizio sia stato molto complesso.
Espansione
Quali sono i vostri piani di crescita e di espansione?
Enrico: La nostra ambizione è sempre stata quella di creare un marchio che, sì, avesse come core la scarpa, ma che comunque fosse un marchio prima di tutto. E un marchio che sta per alta qualità made-in Italy a un prezzo accessibile. Quindi abbiamo deciso di allargare la nostra offerta aprendo in qualche categoria merceologica di accessori complementari, in particolare le cinture, il fit core della scarpa, i portafogli e infine le borse.
Sostanzialmente stiamo allargando la nostra offerta e puntando su quel tipo di cliente che è più difficile da acquisire, perché magari ha già le sue soluzioni di abbigliamento e dei negozi di riferimento, per cui mette in atto un po' di resistenza quando si tratta di scoprire negozi nuovi, però poi quando ti scopre diventa molto affezionato. Sempre che i prodotti siano buoni, chiaramente. Il nostro repeat rate, il tasso di riacquisto tra i nostri clienti, è già molto alto se consideriamo che vendiamo solo scarpe con uno stile molto definito. Quindi noi crediamo che andando a offrire prodotti complementari, con la stessa logica di alta qualità al prezzo giusto, possiamo sfruttare non solo nuovi clienti, ma anche andare a servire maggiormente quello che in finanza si definisce lo share wallet, ovvero la quantità del portafoglio di spesa del cliente già esistente nel tuo database, perché già affezionato al marchio.
L'altro piano è l'internazionalizzazione, che sia il mercato nordamericano ma anche nordeuropeo. Vendiamo già bene a Parigi, in Svezia, e qualcosa anche in Danimarca e nel Regno Unito. Circa l’80% del nostro fatturato online proviene dall’Italia e il 20% dall’estero. I test effettuati dimostrano che l’interesse c’è anche da altre parti, quindi i piani sono di espansione del catalogo, internazionalizzazione, ed espansione anche retail, andando a lavorare sempre sui nostri negozi monomarca.
Le botteghe sono importanti perché costituiscono una monetizzazione di quei clienti che non sono ancora pronti a fare il primo acquisto online, che nel mondo della scarpa soprattutto in Italia è una percentuale ancora rilevante. Tant'è che in un negozio tipo quello di Roma, aperto due mesi fa, l’80% delle persone che entrano ci conoscono dall’online. Magari non hanno ancora comprato, però magari aprono la nostra newsletter, quindi sono già dei seguaci di Velasca.
Il nostro modello offline è costituito da una bottega di quartiere, che attrae le persone che già ci conoscono e che piano piano costruiscono un passaparola nella città, geolocalizzato, e quindi nel tempo si cresce da 80/20 a magari 50/50. 50% viene dall’online, magari un 40% viene dal passaparola e un 10% sono persone di passaggio. È per questo che non vogliamo fare il negozio mass market standardizzato, ma magari espandere un poco il modello di botteghe attuale, rendendole magari un pochino più strutturate, con delle procedure e con l'informatizzazione legata ai software che già usiamo.
Jacopo: E poi stiamo considerando di aprire anche in altre città. Stiamo valutando la strategia migliore e l’area geografica dove abbia più senso farlo. Banalmente, ci chiediamo se abbia più senso aprire a Londra perché ci darebbe una visibilità a livello internazionale, oppure aprirne altri otto in Italia seguendo una logica più nazionale? Con quale concept? Mantenendo il modello attuale con negozi piccoli e non in zone di passaggio, dove costano poco e non vengono visti da molte persone? Oppure qualcosa di più grande, dove possiamo offrire anche un caffè? Perché l'idea - oltre a monetizzare come giustamente diceva Enrico - è anche a livello di interazione con il cliente. Noi con il negozio cerchiamo di comunicare tutto quello che non riusciamo per definizione a fare con lo schermo, col computer. Il motivo per cui stiamo cercando altri concept è che ci piacerebbe che il cliente entri nel negozio e si senta come a casa. Lo gestiamo come un salottino, gli store manager sono istruiti in modo che la vendita non diventi il loro unico obiettivo. Se il cliente entra e non compra, si deve continuare a raccontare la nostra storia. Il cliente la ascolta da una persona che è piacevole stare a sentire, che magari offre un caffè, o un bicchiere di vino la sera.
Le botteghe sono importanti perché costituiscono una monetizzazione di quei clienti che non sono ancora pronti a fare il primo acquisto online.
Ecosistema Velasca
Quante persone impiega Velasca?
Enrico: Sono quattro nei negozi, fra Milano e Roma. Poi ci sono una decina di dipendenti proprio dell'ufficio, più quattro freelancer…
Jacopo: Abbiamo un artigiano che lavora solo per noi, e sono 6 persone. Alla logistica abbiamo una persona e mezzo dedicata a noi. Quindi l’indotto arriva già a una trentina di persone.
Enrico: In fondo noi siamo una realtà ancora piccola, eppure abbiamo già 30 persone d’indotto. Penso al potenziale che possono avere queste iniziative proiettate all'estero… Alla fine l'attività commerciale diretta al consumatore finale ha bisogno di magazzino, di visibilità di marketing, i primi anni ha bisogno di tanta finanza se vuoi avere dei volumi alti. Diverso è se vuoi fare un piccolo negozio che sia online/offline, diciamo un lifestyle business. Ma se invece vuoi proprio creare un marchio con dei volumi, magari arrivare a vendere 100.000 prodotti all'anno, hai bisogno di avere le spalle un po’ larghe. Il percorso che abbiamo fatto è stato proprio questo: dimostrare in piccolo cosa potevamo fare, affinché ci fossero delle persone e poi successivamente dei fondi che dicessero “guarda questi ragazzi cosa si sono messi a fare, ci hanno messo la faccia, hanno rischiato. Diamogli qualche soldo in più e vediamo se riescono a fare il passaggio”. E questo è stato - in tre step fondamentali - il percorso di Velasca. Il mercato nordamericano in questo mondo del finanziamento delle start-up è 200 anni avanti. Anche in Europa, ci sono paesi come la Francia, che è molto simile all’Italia a livello di sistema-paese, che è avanti almeno 20 anni rispetto a noi. Ed è un peccato perché i vantaggi ci sono e sono reali. Già una realtà come Velasca, piccolina, ha 30 persone d’indotto, figurati se riuscissimo a decuplicare i nostri volumi. Magari non sarebbero 300, ma 200 persone tutte!
L'ufficio di Velasca con il team quasi al completo durante la mia visita!Una realtà come Velasca, piccolina, ha 30 persone d’indotto, figurati se riuscissimo a decuplicare i nostri volumi. Magari non sarebbero 300, ma 200 persone sì!
La piattaforma
Come avete scelto Shopify?
Enrico: Nel 2012 io già lo conoscevo come piattaforma, però non mi sapevo tanto orientare nel mondo tecnologico; il mondo Shopify era diverso, era utilizzato in Italia da pochissimi e quindi in realtà ci siamo fidati più dei consigli, tra virgolette, di esperti del settore o web agency che ci hanno aiutato a mettere su il sito e abbiamo scelto PrestaShop, perché loro da sviluppatori preferivano il discorso open source; quindi, scaricare il codice sorgente, fare le modifiche, cosa che col senno di poi è stato un errore, in realtà. Né io né Jacopo siamo sviluppatori e quindi quello che abbiamo trovato di bello in Shopify - e che forse ci avrebbe aiutato se fossimo stati su Shopify prima - è il fatto che sia stato pensato per persone di marketing o di prodotto e non per persone di IT, cioè non ingegneri. Ed è quello che secondo me è super-vincente di Shopify: pensare che l'ecommerce non lo fanno solo Yoox e Zalando, ma lo può fare chiunque.
Quindi siamo passati a Shopify con una struttura molto più complessa per Velasca sviluppando un tema nostro internamente, e puntando molto sul posizionamento che ha voluto proprio essere uno statement: “questo è Velasca e non lo trovi da nessun'altra parte, così come non trovi questi prodotti da nessun'altra parte”.
Il nostro negozio online è strutturato con un listino prezzi per l'Italia, in italiano e localizzato, uno per l'Unione Europea e un altro per il resto del mondo, con le valute diverse.
Quello che secondo me è super-vincente di Shopify è il pensare che l'ecommerce non lo fanno solo Yoox e Zalando, ma lo può fare chiunque.
Conclusioni
Jacopo: Fare l'imprenditore è un qualcosa che abbiamo sempre voluto fare. I nostri lavori di dipendenti all’estero sono serviti per costruire qualcosa di nostro, quindi sicuramente la via del lavoro in proprio l'avremmo prima o poi trovata. Quello che abbiamo scoperto è che quello che premia veramente Velasca è il modello di business. Quindi, il prodotto è fondamentale e deve avere un valore, ma è più quello che viene raccontato attorno al prodotto e il come lo si fa. Noi crediamo che questo nostro modello di business “direct consumer” sia un modello vincente, e continuerà ad esserlo in futuro.
L'intermediazione, la distribuzione, è vetusta, è una duplicazione di costi infinita, costi che poi si ribaltano sul consumatore finale. Noi abbiamo preferito creare un qualcosa che dia beneficio al consumatore finale e che lo privi delle inefficienze dei processi. Tornando indietro, fare le scarpe è bellissimo, perché la moda è bella, è un bel settore. Anche se noi ci siamo ritagliati un prodotto che è moda ma non è propriamente moda. Ce lo siamo ritagliati ad hoc per il modello di business. È una scarpa che andava di moda 30 anni fa e si spera che vada di moda ancora tra 30 anni, è soggetta ad utilizzo. Il nostro modello più venduto è la francesina nera in cuoio; una persona che lavora in banca, un consulente, un avvocato ne cambiano almeno una ventina durante l’arco lavorativo della loro vita. E quindi abbiamo cercato di creare questo: di partire dalle scarpe e probabilmente sì, ci sono tanti altri prodotti che si potrebbero fare e probabilmente tanto bene quanto le scarpe, o addirittura meglio. Questo è un modello di business che mi sento di convalidare, tant'è che ogni tanto fantastichiamo dicendo “pensa se vendessimo spazzolini da denti o asciugacapelli”. Cito cose banali, prodotti che magari non funzionano. Però questo è consolidato come modello di business, che è un po' la cosa bella... Su Shopify basta cambiare le foto, togli e le scarpe racconti una storia diversa, metti veramente bicchieri o complementi d'arredo italiano di artigiani brianzoli ed è un po’ la stessa cosa.
Cosa ti sentiresti di dire a qualcuno che sia agli inizi di un suo percorso di imprenditore, con un'idea iniziale?
Enrico: Direi che è importante limitare il rischio, e porsi la domanda: “se dovesse andare tutto male, quanto ci metto a ritornare al punto in cui ero prima?”. Secondo me se hai lavorato bene negli anni, con una propria professionalità, è un rischio che puoi prendere. Ti dici “alla peggio ritorno a fare il consulente, o quello che facevo prima”; se hai lavorato bene - ovviamente questa è la premessa - non è così difficile come possa sembrare. Quindi è importantissimo limitare il rischio e non buttarsi in maniera avventata, però è anche importante provarci, perché non ci sarà mai il momento giusto, non sarà mai perfetto. Se penso a Velasca e penso al primo business plan mi viene da ridere sinceramente. Però perseverando qualcosa di bello alla fine ne è venuto fuori.
Jacopo: Dipende anche dall'esperienza che si è avuta in passato… È giusto fare palestra ma è giusto anche darsi una scadenza, perché altrimenti si diventa troppo razionali e magari fare un passo indietro risulta un pochino più difficoltoso.
Un'altra cosa che serve tantissimo è la scelta del partner giusto con cui iniziare. E secondo me è importante perché si devono condividere le difficoltà... alla fine ci sono dei momenti in cui sei più giù tu, dei momenti in cui è più giù l’altro. Alla fine ci si riesce a compensare, a trasferire un po' di energia che è sempre importante, cercando competenze diverse, attitudini diverse, che nel tempo aiuta tantissimo. È ovvio che c'è una base di valori, una base di energia che è la medesima, declinata in sfaccettature diverse. La stessa cosa poi abbiamo fatto con gli altri soci. Abbiamo tutti gli stessi valori, competenze diverse e la stessa energia. Questo è importantissimo.
Per quotare Farinetti, il fondatore di Eataly: “è giusto affezionarsi alle persone, e non alle cose che si creano”, perché poi alla fine è quello che conta. Fare qualcosa è facile se hai delle persone che remano tutte nella stessa direzione, con peculiarità diverse.
...c'è una base di valori, una base di energia che è la medesima, declinata in sfaccettature diverse.
Velasca è in Piazza Sempione 2 a Milano, in Via Fabio Massimo 93 A Roma, e su Instagram. Il loro bellissimo magazine è A Million Steps.
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